Locandina valori e libertà

Valori e libertà | Intervista a Maria Elisabetta Guajana – Psicoterapeuta

Che nesso c’è tra valori e libertà? Come vivere bene il proprio lavoro se non condividiamo i valori dell’istituzione per cui lavoriamo? Di questo parleremo oggi con la psicoterapeuta Maria Elisabetta Guajana, che ci ha gentilmente concesso un’intervista.

Incrociai Maria Elisabetta tempo fa sulla mia strada, quando iniziai ad organizzare la Settimana del Cervello in Basilicata. Da allora è passato molto tempo, ma recentemente sono venuta a sapere quasi per caso che le era capitato di lavorare in una scuola paritaria di stampo cattolico e le ho voluto chiedere come era stata per lei questa esperienza, ossia principalmente quanto libera si fosse sentita di esprimere se stessa e i suoi valori personali e professionali in un’istituzione già valorialmente orientata. In sostanza, come ha vissuto il binomio valori e libertà.

Ciao Maria Elisabetta, la prima domanda è: chi sei personalmente e professionalmente?

Ciao a te, Laura, e grazie per questa opportunità! Sono Maria Elisabetta Guajana e sono una psicologa e psicoterapeuta. Sono nata a Palermo, dove ho vissuto fino al conseguimento della laurea triennale. Dopodiché mi sono trasferita, prima a Torino poi a Milano – dove tuttora vivo e lavoro – per continuare gli studi e intraprendere l’attività professionale.

Ascoltare le storie altrui mi è sempre piaciuto, così tanto che alla fine è diventato un mestiere.

Mi sono formata nell’ambito dei Servizi Pubblici per la Salute Mentale come Servizi di Psicologia dell’Età Evolutiva, Neuropsichiatria Infantile e Centri Psico-Sociali. Ad oggi, offro supporto psicologico prevalentemente a persone adulte alle prese con diverse difficoltà emotive e relazionali: in particolare, mi occupo appassionatamente di tematiche LGBT+ e di dolore cronico. Se vi fa piacere, potete trovarmi anche online: sul mio sito oppure sui social (Facebook e Instagram) come @psicoparoleinfiore.

Valori e libertà - ne parla la psicoterapeuta Maria Elisabetta Guajana
La psicoterapeuta Maria Elisabetta Guajana

Com’è stata, da psicologa, l’esperienza di lavorare in una scuola cattolica? Come hai vissuto il binomio valori e libertà?

È una domanda che mi hanno fatto in molti – dal momento che psicologia e religione appaiono spesso inconciliabili – ma devo dire che avere a che fare con persone o contesti meno affini o addirittura lontani da quelli che sono i miei valori non è mai stato un problema davvero insormontabile per me. Anzi, all’inizio mi preoccupava di più che fosse la scuola ad avere difficoltà con il mio non essere una persona molto praticante. Ma poi questo timore è sempre risultato infondato. Lavorando in una scuola elementare, è capitato a qualche messa che i bambini mi chiedessero come mai non prendessi la comunione, ma io ho sempre risposto con un semplice “non me la sento”.

In generale, credo mi abbia aiutata il modo in cui – nel tempo – ho imparato a vivere i rapporti con i gruppi, e quindi anche con le istituzioni: non come luoghi con cui combaciare, in cui cercare una perfetta simbiosi, ma dove poter avere uno scambio rimanendo sé stessi. Non credo che per avvicinarsi o capirsi si debba essere per forza uguali, né che sia necessario far cambiare idea a qualcuno – così come mi auguro che l’altro non cerchi di far cambiare idea a me.

A proposito di quanto stavi dicendo, c’è stato qualcuno che – pur non avendo i tuoi stessi valori – ti ha in qualche modo ispirato?

Direi di sì! Sono rimasta molto colpita dalla “testimonianza” di una collega più anziana che – pur essendo ormai in pensione – continuava quotidianamente a dedicarsi alla scuola e a occuparsi delle proposte spirituali (es. per le festività religiose, il catechismo, ecc.). Era evidente quanto il suo lavoro fosse intrecciato alla sua personale esperienza di fede e in qualche modo al desiderio di “evangelizzare”, facendosi portatrice e “strumento” di un determinato messaggio – a volte più tradizionalista di quanto forse avrei gradito. Questo, però, non mi ha impedito di riconoscerne la forza e ammirarne il “carisma”, risorse importanti per chiunque cerchi di portare avanti ciò in cui crede.

In un’altra occasione, parlando con una suora del suo percorso verso la consacrazione, ho realizzato quanto questa scelta – esattamente come per la maggior parte delle altre scelte (di vita e non) – possa essere difficile, faticosa anche per chi ci sta intorno e quindi comportare una vera e propria battaglia di “individuazione”, che è quella che ci porta a diventare chi siamo e a trovare il nostro posto nel mondo.

L’ultima domanda: hai guardato questa realtà anche con sguardo psicologico? Cosa ne è emerso?

Certamente, e mi sono venute in mente alcune cose.

In primo luogo, credo che per vivere (e lavorare) bene in contesti diversi, specialmente quando non ne condividiamo strettamente i valori, uno strumento utile sia il non giudizio. Questa è una competenza molto cara agli psicologi e alle psicologhe, ma capisco possa essere difficile da “non addetti ai lavori” applicarla nel modo in cui la intendiamo solitamente noi. Questa disposizione conferisce dignità a ogni singola voce, nel tentativo di entrare in empatia con la persona e comprenderla rinunciando il più possibile ai propri “filtri” personali, per lasciarla fiorire davanti a te, accettandola così com’è e per come è.

Da questo punto di vista, credo anche che un ambiente come quello scolastico, preposto cioè all’educazione, venga “facilitato”. Anche chi ha meno dimestichezza con concetti psicologici o fatica a mettersi nei panni dell’altro, si trova subito a fare i conti con il fatto che certe cose vanno accettate così come sono e non come l’adulto vorrebbe che fossero, che le diversità di tutti i bambini e le bambine, di chi ha “bisogni speciali” vanno rispettate, rappresentate, valorizzate.

Domanda bonus: Quali consigli pratici ti sentiresti di dare ad una persona che sta per fare la tua stessa esperienza? Come gli consiglieresti di vivere la conflittualità tra valori e libertà?

Il primo suggerimento, forse controintuitivo, che sento di dare è quello di provare ad affrontare un’esperienza del genere come si farebbe con…un qualunque altro lavoro (pagato)! Tenendo, cioè, a mente non solo il nostro ruolo e i compiti a cui siamo chiamati, ma anche i nostri eventuali pregiudizi.

Qualcuno potrebbe temere o sentirsi particolarmente a disagio con la vocazione “missionaria” degli istituti religiosi, ma a tal proposito può essere utile ricordare che siamo lì per lavorare, non per intraprendere – contro i nostri desideri – un cammino religioso o di fede. Anche nella clinica succede di confrontarsi con pazienti che hanno valori diversi dai nostri, e noi siamo tenuti ad aiutarli all’interno del loro sistema di valori. Perché qui dovrebbe essere diverso? Lavorare, e farlo in maniera professionale – per me – significa letteralmente trovare un modo per “incontrare” l’altro e provare a instaurare un rapporto, più o meno facile, di “convivenza” tra diverse parti: di sé, di me (con la mia offerta, i miei limiti) e di te (con la tua richiesta, le tue esigenze).

Questo permette di dare importanza sia alla propria voce che a quella altrui e cercare di fare qualcosa di bello con entrambe. Infine, se proprio dovessero esserci dei contrasti, valutare sul momento se è il caso di disinnescarli, perché non così importanti… o lottare, in casi in cui sentiamo che la posta in gioco è più alta.

Ciao Maria Elisabetta, grazie per questa preziosa intervista!

E voi, come vivete questo binomio? Se vi interessa ho scritto un altro articolo sui valori, che riguarda le conseguenze di “svendersi” e lo trovate qui.

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