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Disabilità | La mia esperienza estiva con persone diversamente abili

Questo sarà un articolo decisamente diverso dagli altri, molto più personale e profondo, sincero e autentico sulla disabilità, ma non solo. Innanzitutto perché racconterà una storia, anzi delle storie, e poi perché tra queste storie ci sarà impastata anche un po’ la mia.

Quest’estate, tra la seconda e la terza settimana di Luglio, sono partita per accompagnare – insieme ad altri colleghi della cooperativa “Il Brutto Anatroccolo” di Roma – un gruppo di persone diversamente abili in un soggiorno vacanza a Lucignano, in provincia di Arezzo.

A proposito di Arezzo, lo sapevi che è la patria di uno dei santi protettori più famosi delle persone con patologie di tipo mentale? Puoi leggere un articolo in merito qui.

Un’esperienza immersiva nella disabilità

L’ho fatto perché – dopo aver studiato per tanto tempo la disabilità e averla vista e accompagnata – volevo fare un’esperienza “immersiva”, potente e che mi facesse capire davvero se quello che gli altri dicono di me – cioè che ho un talento naturale con questo tipo di utenza (una volta che mi sciolgo un po’) – fosse vero. E soprattutto volevo mettere a disposizione la mia testa, il mio cuore, le mie mani, di qualcuno… forse già intuendo che quella a cui sarebbe stato fatto un servizio sarei stata io.

E così, con una valigia troppo pesante e una testa che ho cercato di liberare il più possibile, sono partita.

Inizialmente non è stato automatico abituarsi a vivere un ambiente diverso dal proprio sapendo di avere la responsabilità di qualcuno (considerando che non ho figli, questa è stata la prima cosa che ho percepito). Poi, tuttavia, quando ho iniziato ad essere io più tranquilla riguardo alla mia effettiva capacità di interpretare i segnali che gli utenti mi mandavano, ho iniziato a vivere questa esperienza appieno. Dopo pochi giorni, quella era diventata la mia nuova normalità.

Un'opera d'arte in una chiesa di Pienza dove viene raffigurato San Bernardino da Siena, un santo a cui sono molto legata.
Una chiesa di Pienza: c’è anche San Bernardino da Siena

Un corretto approccio alla disabilità: non avere paraocchi

Sicuramente aiutata dal fatto di non aver chiesto mai (e tuttora continuo a non saperlo) la diagnosi delle persone che erano con noi (anche se immagino che questo approccio possa essere criticato da qualcuno) e dalla mia naturale propensione a non avere pregiudizi e ad esprimere pochissimi, circostanziati, giudizi ho potuto vedere emergere qualcosa che, quando scrissi la tesi triennale sulle strategie di coping nelle famiglie con figli autistici, stentavo a credere… nonostante fossero risultati di ricerche.

In sostanza, la maggior strategia di coping funzionale nelle famiglie (e non solo, mi viene da dire) non sono i ragionamenti filosofici e/o religiosi, il senso del dovere o l’illusione che sia “tutto normale” ma scoprire cosa in quella persona è presente al di là della diagnosi: scoprire la persona, il suo carattere, i suoi gusti, le sue abitudini preferite… nei genitori (e non solo) fa un effetto assolutamente positivo, perché aiuta a non ridurre la persona alla sua patologia e, anzi, a vederla – al netto delle difficoltà – come tutti gli altri. Certamente presenti anche le condizioni economiche e il supporto sociale e istituzionale tra le strategie di coping, ma ahimè queste non possono essere controllate dalle famiglie che, almeno all’epoca, avevano ben poco a disposizione (anche all’estero).

A un certo punto c’erano solo Genoveffa, Mario, Sofia e Renzo (nomi di fantasia per tutelare la privacy) con le loro peculiarità con cui è stato poi piuttosto naturale relazionarsi. Se partiamo dal presupposto che ognuno di noi è diverso e che tutti conosciamo le regole per trattare gli altri con dignità e renderli quanto più possibile sereni, diventa tutto molto più facile.

Il cambiamento di prospettiva grazie alla disabilità

Ci sono stati certamente momenti difficili dovuti all’adattarsi a ritmi non miei*, a un lavoro che – di fatto – è per 7 gg/24 su 24 h, al sorridere per dare allegria anche se magari quel momento non era dei migliori… ma questo è stato anche il bello: “uscire da sé” e non pensare che il proprio modo di vivere sia l’unico o necessariamente il migliore e non stare sempre al centro della propria attenzione.

Sapersi centrare fa bene, ma anche sapersi decentrare ha i suoi – molti – lati positivi. Avere la flessibilità per viaggiare con delicatezza tra il prendersi cura di sé e prendersi cura degli altri non è cosa scontata e nemmeno facile, ma assolutamente necessaria.

Ci sono stati però anche momenti in cui – dico sul serio – mi è sembrato di toccare il cielo con un dito: le risate, le opinioni scambiate tra un piatto e l’altro, la colazione salata, la focaccia – non sciocca! – che servivano a ogni pasto, i momenti in cui riuscivo a riflettere tra me e me e a rimettere in ordine i pensieri, l’aver messo per una settimana “in pausa” la mia solita vita per immergermi in qualcos’altro. Tra una fatica e l’altra ho sentito dentro di me una leggerezza e una gioia piena che – sinceramente – proprio non mi aspettavo, considerato che comunque stavo lavorando.

A chi consiglierei questa esperienza con la disabilità?

Pur sapendo che questo tipo di lavoro non è “per chiunque”, se potessi consiglierei a tutti di fare un’esperienza simile:

  • Per cambiare prospettiva;
  • per guardare occhi a volte persi e a volte pieni di amore;
  • per farsi regalare una piccola mela raccolta in giardino;
  • per aumentare la propria gratitudine nei confronti della vita;
  • per diventare persone migliori e più empatiche, per toccare con mano cosa significa “servire” e rendersi conto che il vero servizio lo stiamo facendo a noi stessi.

Voglio spiegare meglio quest’ultima frase. Non sto romanzando la disabilità che ha le sue difficoltà evidenti. Sto dicendo che a volte spesso cercando di accogliere certe difficoltà ci rendiamo conto noi stessi che viviamo a ritmi un po’ più umani, che sappiamo dare meglio le priorità perché non abbiamo troppe energie da sprecare e che, in definitiva, riusciamo meglio a capire cosa conta davvero e cosa, al ritorno, possiamo tagliare.

Naturalmente sono cosciente che il contatto con la fragilità altrui non a tutti fa questi effetti, per questo ho detto “non per tutti”. Tuttavia penso anche che, se si vogliono ottenere questi effetti anche se il proprio carattere non sarebbe portato, si può… tramite un percorso personale che si deve essere motivati a fare.

Lo rifarei?

Mille volte, per tutto ciò che ho detto ma anche perché stare una settimana fuori potendo avere pochi contatti con casa propria mi ha aiutata anche a rendermi conto di cosa e chi mi mancava davvero e a chi, invece, forse avevo dato troppa importanza (o troppo poca).

So che è stata una sola settimana e non vorrei che passasse il messaggio dell’assistenza alle persone diversamente abili come qualcosa “rose e fiori” ma più che altro che può essere più leggera, significativa e anche spirituale se la si affronta con la giusta attitudine. Se “lavare i piedi” non viene visto come umiliazione ma, appunto, come servizio in cui, a volte senza neanche cercarlo, si guadagna qualcosa per sé.

*(che solitamente quando vado in viaggio torno con una padronanza del territorio degna di un autoctono e difficilmente mi riposo nel senso vero del termine).

Un regalo per te che sei arrivato fino a qui:

Link del sito della Casa Vacanze “I Girasoli”: http://www.igirasoli.ar.it/it/#/

3 commenti

  1. […] Se ti interessa leggere della mia esperienza di soggiorno con persone disabili, clicca qui. […]

  2. […] questo motivo quando qualche tempo fa ho pubblicato un post sulla mia personale esperienza in un soggiorno con persone con disabilità e nei commenti Facebook […]

  3. […] ti interessano altri articoli sulla disabilità, puoi leggere questo: la mia esperienza in un soggiorno di lavoro con persone […]

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